L'OCCHIO DEL LABIRINTO
FUORI NIGUARDA | Teatro Elfo Puccini
13 | 18 febbraio
scritto e diretto da Chicco Dossi
con Simone Tudda
primo spettatore Renato Sarti
produzione Teatro della Cooperativa
si ringrazia l’Associazione Enzo Tortora
Un uomo, una vita.
Poi, lo stravolgimento, la malagiustizia, la crudeltà, l’accanimento.
Siamo dinanzi all’esistenza di un innocente che è visto come un nemico e che diviene, egli stesso, colui il quale restituisce voce a tutti gli altri “se stesso” che non ne hanno.
Enzo Tortora e la sua storia tornano a vivere sulla scena attraverso un testo ricco di sfumature, colori, riflessioni, umanità e disumanità: ci vuole così poco per cadere “nell’occhio del labirinto”. E’ quello che avviene a un uomo completamente estraneo a tutto quello che gli sta accadendo e, incredulo, stenta a comprendere.
Ne percepiamo lo sguardo, con la ricerca interiore dettata dall’angosciante paura del non ritorno alla propria vita “riconoscibile”.
Le parole del narratore-uomo pubblico scivolano via, una dopo l’altra, come il tempo avviluppa la vita, la conduce e la lascia fluire per bloccarla e ancora liberarla. Così, la storia di Enzo Tortora racconta se stessa: l’uomo narrato diventa il narrante che vive i momenti mentre li osserva cercando di trarne risposte con le mille domande ancora sospese. “I se e i ma” si librano nell’aria; hanno peso e trasmettono freddo.
Simone Tudda abilmente, mette in azione un corpo che muove abiti, sempre gli stessi e riconoscibili, che identificano ora il protagonista, poi, pause dialogative e ancora sospensioni temporali…quelle che servono alla memoria e ai pensieri per cercare il “senso” di tutto quel male capace di ribaltare la vita del nostro protagonista.
Un contraccolpo esistenziale. Come agire alle ribellioni della vita quando sono architettate da uomini assetati di “male”? E come si può uscire da un incubo del genere?
Il regista e autore della pièce Chicco Dossi ci pone davanti a questa evidenza umana: Enzo Tortora è un uomo ma anche un portavoce di innocenza. Conduce se stesso davanti a un tribunale che sa bene essergli avverso eppure, porta lì davanti la sua dignità e null’altro. Cosa faremmo noi? Cosa ci dice Tortora con tutto il dolore che lo ha divorato, momento per momento? Esiste la giustizia e possiamo noi credere in lei? E se questo è accaduto a un uomo pubblico, quanti uomini comuni stanno pagando per colpe non commesse?
Tortora viene assolto quale persona innocente ma ormai è morto a se stesso. Divorato internamente da tutto il male ingoiato e trattenuto per avere il coraggio di guardare in faccia i propri carnefici. Nella gratuità, la sua luce, pur spegnendosi in un corpo annientato, si è espansa, illuminando le speranze di quanti lottano silenziosamente: mai arrendersi anche quando tutto sembra finito e irreversibile. Una possibilità può nascere. Questa la lezione umana e di vita che Tortora lascia a ognuno di noi, quali testimoni della memoria del male.
Margareth Londo
Dalle parti di Corso Magenta, a Milano, proprio davanti al Teatro Litta, c’è Largo Enzo Tortora. Quasi più una commemorazione che una targa toponomastica – non credo che possieda nemmeno un numero civico – in piccolo, sotto il nome, reca la scritta giornalista e le date di nascita e di morte: 1928-1988.
Più per curiosità che per senso civico, un giorno, ho deciso di informarmi. Ho scoperto che il caso Tortora era ben noto alla generazione di mia madre e assolutamente sconosciuto alla mia. Un caso di malagiustizia, forse ancora più eclatante perché perpetrato ai danni di una persona nota agli italiani, dal momento che il suo volto teneva banco per un’ora e mezza a settimana sulle reti nazionali. Un episodio che assumeva contorni sempre più agghiaccianti, man mano che lo approfondivo: nessuna presunzione di innocenza, accuse mosse senza prova alcuna, magistrati smaniosi di arrestare il nome grosso che non leggono gli atti dei processi, blitz antimafia venduti alla stampa ancora prima che avvengano, il tutto ai danni di un uomo totalmente estraneo ai fatti e non associato in alcun modo agli ambienti camorristici.
Spesso riteniamo che il XXI secolo sia l’era delle fake news, dello strapotere dei media – siano essi tradizionali o social – nel dirigere da una parte o dall’altra l’opinione pubblica. Il caso Tortora è l’esempio lampante di come la manipolazione delle informazioni affondi le sue radici più indietro nel tempo: testate autorevoli e firme di tutto rispetto hanno contribuito a questa grottesca macchina del fango basata su pettegolezzi giudiziari, fiumi di calunnie imperniate sul sentito dire, cacce grosse allo scoop più bieco per dipingere una persona onesta come un mostro dalla doppia faccia, quella del presentatore che intrattiene le famiglie sulla TV di Stato e quella del malavitoso capace di spostare milioni di lire e chili di cocaina con uno schiocco di dita.
Il caso Tortora non è incredibile soltanto per la crudeltà con cui giudici, stampa e opinione pubblica si sono accaniti nei confronti di un innocente. La storia di Enzo è la storia di un uomo, che, dall’alto della sua posizione di personaggio pubblico, ha deciso di farsi portavoce di una battaglia che non ha colore politico: quella della giustizia giusta. Avrebbe potuto darsi alla macchia come già altri – meno innocenti – che prima di lui avevano fatto, avrebbe potuto sottrarsi a un processo che sapeva essere iniquo. Consapevole di essere innocente, Tortora si è spogliato dell’immunità di europarlamentare per farsi giudicare da un tribunale che non lo vedeva come imputato, ma come nemico. Consapevole di essere innocente, ha messo la sua storia a disposizione di tutte le persone che sono nella sua stessa situazione, ma non hanno i mezzi e le possibilità di essere giudicate in maniera equa.
Il monologo – interpretato da Simone Tudda – si dipana in una narrazione continua, dove la diegesi oltrepassa i confini narrativi per sfociare nel dialogo, risale nel resoconto storico, dove i dati sono sempre raccontati in maniera essenziale per comprendere le vicende, si alterna tra la terza persona di un narratore onnisciente, che va a spiare i detenuti del carcere di Forte Longone e la prima persona del giornalista, fino a scavare nella sua interiorità nel momento dell’arresto, provando a immaginare come possa essersi sentito, braccato in piena notte, dai carabinieri all’Hotel Plaza di Roma. Iniziano così i suoi anni nell’occhio del labirinto, espressione che vuole unire la claustrofobia di chi non sa quando, e soprattutto se, potrà uscire dalla prigionia fisica e mentale con il voyeurismo giustizialista della stampa, che, per una copia venduta in più, non ha esitato a ignorare i fatti per far posto al sensazionalismo più bieco.
Il regista Chicco Dossi
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